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  • Immagine del redattoreAlessandra Bello

Tofana di Rozes. Ferrata Lipella


Mi svegliai naturalmente, prima della sveglia che avevo puntato all’alba. Il bosco attorno a me si stava svegliando e percepivo la sua silenziosa potenza. Aprii gli occhi con il pensiero che quel giorno avrei finalmente scalato la Tofana di Rozes percorrendo la famosa ferrata Lipella.

Dopo i soliti preparativi ci dirigiamo alla base della nostra regina. Il giorno è perfetto: fa caldo ma non troppo e ci apprestiamo sul facile sentiero verso l’attacco della ferrata.

Tutto intorno a noi racconta di postazioni, trincee e gallerie che conosciamo e ci ritroviamo davanti all’affollato attacco della ferrata. Decidiamo di aspettare che i più fluiscano per partire più tranquillamente.


Appena percepiamo il silenzio sopra di noi capiamo che è ora di andare e iniziamo a salire; dopo una facile galleria al Castelletto ci affacciamo sulla Val Travenanzes.

Il paesaggio esplode.

All’improvviso siamo piccolissimi.

Io e C. continuiamo ad avanzare sulla cengia. Seguiamo la sottile linea bianca del sentiero esposto per tornare a seguire poi la nera linea di ferro. Entriamo ed usciamo da anfratti, canaloni, cenge. La luce gioca con noi e ci accarezza scaldandoci prima, per poi restare indietro lasciandoci all’ombra delle enormi pareti sopra di noi.

Dopo un bel pezzo che segue il periplo della Tofana ci ritroviamo sopra una grande cengia: guardiamo sopra di noi la parete ancora enorme. Ci resta un ultimo lungo strappo verticale prima di arrivare alla instabile piramide sommitale.

Questa vista fantastica ci rinvigorisce e nuova energia scorre di nuovo nei muscoli: la roccia è bellissima e si lascia arrampicare benevola. È quasi un peccato dover seguire la sottile e intransigente linea di ferro e non poter invece seguire i consigli della roccia.

Arriviamo soddisfatti alla fine della ferrata e ci prepariamo a salire l’ultimo dislivello.

Qui tutto cambia. La roccia è instabile. Sassi ovunque. Un enorme montagna di sassi che nasconde un anima di roccia ferma che spunta qua e là.

La croce lassù ci guarda divertita e noi puntiamo a lei, senza un sentiero segnato ma senza indugi: sappiamo che sembra vicina ma ci vorrà del tempo arrivare fino a lei.



C’è un detto che dice che bisogna perdersi per ritrovarsi: è tutta la mattina che ci penso. E ci pensavo mentre sfioravo la roccia; e ci pensavo mentre i miei piedi affondavano nel ghiaione sommitale.

In quel mentre capisco che non sono d’accordo: non ho bisogno di perdermi per ritrovarmi; ho la necessità di sentire che posso scegliere ed è in questa libertà che ritrovo me stessa.

È il movimento prodotto dalla scelta che rende liberi. Un passo dopo l’altro, aggiustandosi per approssimazione, senza direzione precisa ma conoscendo la meta. Proprio come ora: seguire liberamente la mia strada verso la vetta; mi ritrovo coerente col mio sentire, coerente col mio fiato, col mio passo, coi miei pensieri. Scegliendo la mia strada mi ritrovo. Ritrovo la mia carica vitale. Ritrovo la mia fallibilità ma anche la mia potenzialità.


La croce a oltre 3000 metri mi accoglie. Da quassù riconosco molte linee del passato che si ricollegano alle mie intime del presente e tutte si uniscono a questa meravigliosa vetta.

Mi giro verso C.: “siamo arrivati, sono felice”.

L’aria rarefatta non cancella la fame e mangiamo qualcosa mentre tutto si apre attorno a noi e si colora di blu cobalto, ocra, terra bruciata, l’immancabile argento della dolomia e il bianco del calcare.

Questa tavolozza ci riempie gli occhi e il cuore e ci prepara per la lunga discesa da questa enorme piramide di Cheope dolomitica.


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Se volete i dettagli tecnici della salita qui trovate la relazione. Buon viaggio! e al prossimo articolo!

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